(Tratto da Plutarco, Vite parallele, a cura di Carlo Carena, Milano, Mondadori, 1981, vol. 1)
“[…] si riaprì nuovamente la disputa sulla forma di governo, che da tempo immemorabile divideva la città, creando tante fazioni, quanti erano i tipi di terreno in cui il paese era ripartito. Gli abitanti della montagna, o Diacri, erano democratici arrabbiati; quelli della pianura, o Pediei, arrabbiati oligarchi; il terzo raggruppamento, dei rivieraschi, o Parali, sosteneva una forma di governo all’incirca media e contemperata tra i due estremi, e intanto impediva risolutamente agli uni e agli altri d’avere il sopravvento. Nello stesso tempo la disparità di condizioni tra i poveri e i ricchi, giunta quasi all’acme, metteva la città in una posizione pericolosissima: la tirannide appariva come l’unico mezzo per riassestarla e porre fine ai disordini. Tutti i popolani erano indebitati verso i ricchi: chi doveva versare una sesta parte del raccolto della terra che lavorava (onde il nome di Ectemori e Teti); chi, contraendo dei debiti sulla garanzia della propria persona, cadeva in possesso del creditore, il quale l’adoperava come schiavo o lo vendeva all’estero. Molti erano costretti a vendere addirittura i propri figli, azione che nessuno vietava, oppure a emigrare per sottrarsi alla durezza dei creditori. Alla fine la maggior parte e i più decisi di questi miserabili si unirono insieme e s’incoraggiarono l’un l’altro a non soffrire oltre un simile stato di cose; decisero piuttosto di scegliere come capo una persona fidata, liberare i debitori morosi, chiedere una nuova ripartizione della terra e una riforma totale della costituzione.
Fu allora che gli ateniesi più saggi misero gli occhi su Solone, il solo a non essere implicato come gli altri negli errori commessi fin lì, estraneo all’esosità dei ricchi, né impigliato nelle necessità dei poveri; e lo officiarono a provvedere ai bisogni comuni e a porre termine ai dissensi. Senonché Fania di Lesbo racconta che Solone, di sua iniziativa, in vista del bene supremo della città, raggirò tanto gli uni quanto gli altri: promise segretamente ai poveri l’assegnazione della terra, ai ricchi la convalidazione delle polizze di credito. Solone da parte sua dice che in un primo momento esitò assai a porre mano alla riforma dello Stato, perché temeva l’avarizia dei magnati e l’intemperanza del popolino. Nondimeno fu eletto arconte, subentrando a Filombroto, con l’incarico di paciere e nel medesimo tempo di legislatore. Tutti accolsero la sua nomina con favore, i ricchi perché era benestante, i poveri perché era onesto.
Già una frase da lui pronunciata antecedentemente, e che aveva fatto il giro della città, ‘L’uguaglianza non provoca guerra’, era piaciuta sia agli abbienti che ai non abbienti: i primi si attendevano che l’uguaglianza fosse proporzionata alla rispettabilità e alla nobiltà di ciascuno, i secondi che fosse calcolata matematicamente. Perciò sia da una parte come dall’altra regnava grande speranza, e i caporioni pressavano Solone, raccomandandogli di assumere la tirannide e incitandolo a impadronirsi della città con un poco d’audacia, giacché l’aveva in suo potere. Molti anche dei cittadini estranei alle due parti, che vedevano quanto sarebbe stato laborioso e difficile attuare una riforma per via di ragione e coi mezzi legali, non rifuggivano dall’idea di mettere una persona sola, la più giusta e la più saggia, alla testa degli affari pubblici.”