(Appiano, Storia romana, Le guerre civili, a cura di Emilio Gabba e Domenico Magnino, Torino, UTET, 2001, libro I)
“7. I Romani, man mano che sottomettevano con le armi le regioni dell’Italia, si impadronivano di parte del territorio e vi fondavano delle città oppure nelle città già esistenti deducevano propri coloni: essi consideravano queste colonie come dei presidi. Del terreno volta a volta da loro conquistato dividevano subito la parte coltivata fra i coloni dedotti, o la vendevano, oppure l’affittavano; la parte che in seguito alla guerra era allora incolta, ed era la maggior parte, non avendo tempo di assegnarla in lotti, permettevano con un editto che la coltivasse nel frattempo chi voleva, dietro pagamento di un canone sui prodotti annui, un decimo per le seminagioni e un quinto per le culture arboree. Veniva stabilito un canone anche per gli allevatori tanto del bestiame grosso quanto del minuto. Essi agivano in questo modo perché crescesse la popolazione italica, da loro considerata resistentissima alle fatiche, per avere così alleati in casa. Ma accadde il contrario delle loro speranze. Difatti, i ricchi, occupata la maggior parte della terra indivisa e resi sicuri col passar del tempo che nessuno più l’avrebbe loro tolta, quante altre piccole proprietà di poveri erano loro vicine o le compravano con la persuasione o le prendevano con la forza, sì da coltivare estesi latifondi al posto di semplici poderi. Essi vi impiegavano, nei lavori dei campi e nel pascolo, degli schiavi, dato che i liberi sarebbero stati distolti per il servizio militare dalle fatiche della terra. D’altro canto il capitale rappresentato da questa mano d’opera arrecava loro molto guadagno per la prolificità degli schiavi, che si moltiplicavano senza pericoli, stante la loro esclusione dalla milizia. In tal modo i ricchi continuavano a diventarlo sempre di più e gli schiavi aumentavano per le campagne, mentre la scarsità e la mancanza di popolazione affliggevano gli Italici, rovinati dalla povertà, dalle imposte e dal servizio militare. Se per caso avevano un po’ di respiro dalla milizia, si trovavano disoccupati, poiché la terra era posseduta dai ricchi, che impiegavano a coltivarla lavoratori schiavi anziché liberi.
8. Per questa situazione il popolo era preoccupato che non vi fosse più abbondanza di alleati italici e che fosse in pericolo il suo dominio, data la gran massa di schiavi. Non scorgendo un rimedio a questo stato di cose, poiché non era facile né interamente giusto scacciare tante persone da tante possessioni, detenute da tanto tempo, nelle quali si trovavano loro piantagioni, case e attrezzature in genere, con difficoltà, ad un certo momento, su proposta dei tribuni, fu stabilito che nessuno potesse occupare più di 500 iugeri di agro pubblico, né pascolare più di 100 capi di bestiame grosso e 500 di minuto. Si fece obbligo ai possessori di impiegare per queste mansioni un certo numero di liberi, che sorvegliassero quel che avveniva e riferissero. Queste disposizioni furono comprese in una legge, che fu giurata, e si stabilirono penalità, con l’intenzione che la terra avanzata sarebbe stata venduta a piccoli lotti ai poveri. Ma nessuno si diede pensiero né della legge né dei giuramenti, e quei pochi che avevano l’apparenza di essersene curati divisero, per simulazione, la terra fra i propri familiari; i più non se ne curarono affatto.”