(Tratto da Plutarco, Vite parallele, a cura di Carlo Carena, Milano, Mondadori, 1981, vol. 1)
“La terza, stupenda misura introdotta da Licurgo fu ideata per attaccare ancor più a fondo la mollezza ed estirpare la brama di ricchezza. Alludo all’istituzione delle mense pubbliche. Tutti i cittadini dovevano radunarsi per consumare in comune le vivande prescritte dall’ordinanza e lo stesso pane; vietato pranzare a casa distesi su coperte suntuose e con ricche tavole, facendosi ingrassare per mano di servi e cuochi nelle tenebre, come animali feroci, e corrompendo i corpi insieme agli animi, perché se si sazia e appaga ogni loro desiderio, dopo hanno bisogno di dormire molto, di fare dei bagni caldi, di riposare assai e di essere curati né più né meno che un ammalato.
Grande risultato, certamente, questo; ma più grande ancora l’aver reso la ricchezza “imbramata”, secondo l’espressione di Teofrasto, e “non ricchezza”, poiché tutti mangiavano alla stessa mensa, e o i pasti erano frugali.
[…]
L’educazione continuava a Sparta anche negli anni provetti. Nessuno infatti era lasciato vivere a suo piacimento, ma la città era come un accampamento, ove tutti seguivano un orario definito e badavano agli interessi della collettività; insomma si consideravano sempre al servizio non di se stessi, ma della patria. Se non erano incaricati di qualche altra mansione, sorvegliavano i fanciulli e insegnavano loro nozioni utili, quando non l’imparavano essi stessi dai più anziani. Poiché tra i tanti regali che Licurgo fece ai suoi cittadini, il più bello e beato fu l’ozio abbondante. Infatti non permise loro di dedicarsi a lavori manuali di qualsiasi genere; né conveniva affatto faticare e industriarsi per ammassar ricchezze, dal momento che il danaro non suscitava l’ammirazione di nessuno e non procurava onori. Inoltre c’erano gli Iloti, che lavoravano la terra per conto loro e pagavano il tributo che abbiamo detto. Una volta uno spartano si trovò ad Atene durante la sessione dei tribunali, e sentì parlare di un tale, multato per fannullaggine, che tornava a casa depresso e accompagnato dagli amici pure spiaciuti e dolenti come lui. “Additatemi” chiese lo spartano ai circostanti “costui che hanno condannato perché vive da uomo libero.” Ciò dimostra quanto gli Spartani stimavano disdicevole per un uomo libero esercitare un mestiere ed arricchire.
A proposito di processi, possiamo pensare che uscissero da Sparta insieme alla moneta, poiché in città non rimaneva più né cupidigia né bisogno, ma s’instaurò l’uguaglianza nel benessere e una vita facile, perché semplice. Danze, feste, banchetti, cacce, ginnastica, riunioni occupavano tutto il loro tempo, quando non erano eventualmente alla guerra.”