(Tratto da Marco Terenzio Varrone, De re rustica, Venezia, Tip. Giuseppe Antonelli, 1846, libro II, proemio – adattato da Silvia Magi)
“Non senza ragione i più distinti nostri antenati preferivano i Romani della campagna a quelli di città: parimente riguardavano come pigri ed inerti quelli che vivevano nel recinto della villa, in confronto di coloro che lavoravano alla campagna; e del pari coloro che si sedevano all’ombra della villa, erano riputati infingardi a petto di quelli che lavoravano la terra. E per questo motivo essi divisero l’anno in maniera che non si dovessero trattare gli affari della villa se non ogni nove giorni, e che negli altri sette si dovesse attendere alla coltivazione della terra. Fino a tanto che si tennero a quest’uso, due beni ottennero; quello di avere le terre coltivate, e quindi più feconde, e di godere essi medesimi una sanità più robusta: e quello di non desiderare gli esercizi ginnastici che i Greci hanno nelle loro città; perché oggidì che li abbiamo tutti, appena ci sono bastati. E tanto siamo andati oltre, che non crediamo di avere una villa, se essa non risuona di una folla di nomi greci corrispondenti ai vari luoghi che la compongono, come procetone (vestibolo), palestra, apoditerio (spogliatoio), ornitone (uccelliera), periptero (colonnato), oporotece (deposito di frutta). Per la qual cosa oggidì quasi tutti i padri di famiglia a poco a poco si sono introdotti dentro la mura della città, hanno abbandonato la falce e l’aratro: e perché preferiscono muovere le mani al teatro e nel circo, piuttosto che alla campagna o nei vigneti; perciò siamo ridotti al caso di eleggere all’incanto chi per satollarci ci porti la biada dall’Africa e dalla Sardegna, e siamo nella necessità di ricorrere alla navigazione per trarre il vino dall’isola di Coo e di Chio. Per tal motivo adunque quel paese che fu fondato dai pastori che insegnarono ai loro figli l’agricoltura, oggidì i discendenti dei medesimi, per avarizia e in disprezzo delle leggi, porgono un esempio contrario, avendo ridotto le terre lavorate in prati, senza far attenzione che l’agricoltura è molto differente da quell’arte che è intesa a nutrire il bestiame; poiché altra cosa è il pastore ed altra cosa l’aratore: e quantunque il bestiame si possa far pascolare nei campi coltivati, nulladimeno differisce il custode del medesimo, quando pascola, dal boaro che Io conduce, quando lavora. Di fatti le mandrie del bestiame non producono biade, anziché le distruggono coi denti: per contrario il bue addomesticato, è causa che nascano più lietamente le biade nelle terre lavorate, ed i pascoli nel maggese. Il metodo, io dico, e la scienza dell’agricoltore, differisce da quella del pastore: quegli fa in guisa che ritrae frutti dalla terra, mediante i prodotti originati dall’agricoltura; per contrario questi trae profitto da quanto nasce dal bestiame. Ma poiché queste due arti hanno un intimo legame tra di loro, perché d’ordinario giova più al proprietario del terreno che il pascolo sia consumato dal bestiame sulla tenuta, che venduto; e poiché l’ingrasso della terra è molto acconcio a fare che la terra frutti, e specialmente essendo molto a proposito il concime del bestiame; perciò ogni possessore di fondi deve abbracciare questi due oggetti, l’arte cioè dell’agricoltura, e quella d’ingrassare non tanto il bestiame, quanto ancora gli animali che si allevano nel recinto della casa rusticana. Da quest’ultima arte si possono trarre egualmente frutti non pochi, come dalle uccelliere, dai parchi e dalle peschiere.”