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Il coraggio della prudenza

(Tratto da Polibio, Storie, a cura di Domenico Musti, Milano, BUR Rizzoli, 2001, libro III)

“89. Annibale, che sapeva dell’arrivo di Fabio e voleva terrorizzare i nemici al primo assalto, condusse fuori l’esercito, si avvicinò al campo dei Romani e si schierò per la battaglia. Dopo aver atteso per qualche tempo, poiché nessuno gli usciva contro, si ritirò di nuovo nel suo campo. Fabio, infatti, avendo deciso di non esporsi e di non rischiare una battaglia, ma di mirare in primo luogo e soprattutto alla sicurezza degli uomini ai suoi ordini, restava fermamente di quest’opinione. Inizialmente, dunque, veniva disprezzato e alimentava le voci secondo cui aveva avuto paura ed era stato preda del panico di fronte al pericolo, ma con il tempo costrinse tutti a riconoscere e ad ammettere che nessuno avrebbe potuto affrontare le circostanze di quel momento in modo più assennato o più saggio. Presto anche i fatti testimoniarono a favore dei suoi calcoli. Ed era naturale che ciò avvenisse. I soldati delle truppe nemiche, infatti, si erano esercitati continuamente dalla prima giovinezza nella guerra, avevano un comandante che era cresciuto con loro ed era stato istruito fin da fanciullo nelle operazioni sul campo, avevano vinto molte battaglie in Iberia e due volte di seguito i Romani e i loro alleati, e – cosa più importante –, avendo rinunciato a tutto, riponevano la sola speranza di salvezza nella vittoria; opposta era invece la condizione dell’armata romana. Perciò egli non era intenzionato a venire a una battaglia decisiva: la disfatta era sicura. Riandando, invece, nelle sue riflessioni, agli elementi che erano a proprio vantaggio, a questi dedicava il suo tempo e sulla base di questi dirigeva la guerra. Gli elementi a vantaggio dei Romani erano gli inesauribili rifornimenti e la grande quantità di forze.
90. Perciò, nel periodo successivo, avanzava sempre parallelamente ai nemici e s’impadroniva per primo delle posizioni strategiche secondo la sua esperienza. Avendo abbondanti rifornimenti alle spalle, non lasciava mai andare i soldati a foraggiare né permetteva assolutamente che si allontanassero dal campo, ma mantenendoli sempre uniti e raggruppati spiava i luoghi e le occasioni favorevoli. In tal modo, inoltre, catturava e massacrava molti dei nemici che, sottovalutandoli, si spingevano lontano dal proprio campo per il foraggiamento. Faceva ciò volendo, da un lato, ridurre sempre più il numero già limitato dei nemici, dall’altro, fortificare e risollevare a poco a poco, coi successi parziali, il morale delle proprie truppe, in precedenza gravemente abbattuto. Non era assolutamente intenzionato ad accettare che l’intera questione si decidesse in regolare battaglia. Tuttavia nulla di ciò incontrava l’approvazione del suo collega Marco. Assumendo lo stesso atteggiamento dei soldati, sparlava di Fabio con tutti, dicendo che conduceva le operazioni in modo vile e pigro, mentre egli era pronto a esporsi e a rischiare una battaglia. I Cartaginesi, devastate queste regioni, superarono l’Appennino e, calati nel Sannio, che era una regione opulenta e da molto tempo al riparo da guerre, ebbero mezzi così abbondanti da non poter esaurire il bottino né usandolo né distruggendolo. Fecero scorrerie anche nel territorio di Benevento, che era colonia dei Romani; presero la città di Venosa, che non era fortificata ed era piena di abbondanti provviste di ogni genere. I Romani tenevano loro dietro senza sosta, a una distanza di uno o due giorni di cammino, e tuttavia non erano intenzionati ad avvicinarsi e scontrarsi con i nemici. Perciò Annibale, vedendo che Fabio evitava manifestamente la battaglia, ma non abbandonava il campo del tutto, si diresse audacemente verso le pianure attorno a Capua, in particolare verso la località chiamata Falerno, sicuro di uno di questi due risultati: o avrebbe costretto i nemici a combattere o avrebbe reso chiaro a tutti che la sua superiorità era totale e che i Romani cedevano loro il campo. Una volta che fosse avvenuto ciò sperava che le città, prese dal terrore, fossero spinte alla defezione dai Romani. Fino ad allora, infatti, pur essendo stati essi superati già in due battaglie, nessuna città d’Italia aveva defezionato per passare ai Cartaginesi, ma conservavano la loro fedeltà, benché alcune fossero in difficoltà. Da ciò si può dedurre di quale ammirazione e stima godesse lo stato dei Romani da parte degli alleati.”